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sabato 15 gennaio 2011

Noi

Caterina dice che non ha paura di morire.
Che quando verrà a prenderla, la morte indosserà un mantello bianco al posto del solito nero, perché anche se lei starà per morire avrà pur sempre i suoi lunghi riccioli dorati, e in cielo l’accoglieranno come un angelo.
Io odio questi discorsi. Ogni volta che ne parla – succede sempre più spesso - fingo di guardare con attenzione qualcosa fuori dalla finestra, anche se è talmente buio che non si vede nulla o la tapparella è abbassata.
Ho notato che se fisso a lungo uno stesso punto, senza mai muovere le palpebre, riesco a fermare perfino le lacrime. E intanto Caterina parla, parla….dice un mucchio di cose che non mi piacciono, ma io non la contraddico.
Del resto non ho mai osato farlo neanche prima.
Prima. Ormai il tumore di Caterina è diventato lo spartiacque della mia esistenza, come la nascita di Cristo per la storia. C’è un “prima” della malattia di Caterina: il bianco, la luce, la gioia, il cuore che si lancia in corse impazzite, l’ansia di rivederla, i lunghi pomeriggi assonnati passati al parco dopo le lezioni.
E poi c’è il “dopo”, quando tutto è diventato buio.
Dopo aver mosso la prima pedina incrocio le braccia e me ne sto ad osservarla mentre decide la sua mossa. Conosco a memoria ogni minuscola e impercettibile espressione del suo viso: so che le smorfiette buffe che fa con la bocca indicano estrema concentrazione, mentre il modo in cui a volte si morde il labbro inferiore, pizzicando leggermente un angolo con gli incisivi superiori, mattoncini candidi e sporgenti, rivela che è parecchio imbarazzata.
La fronte corrugata invece è segno che qualcosa la preoccupa particolarmente.
Era l’espressione tipica che aveva al liceo, durante i compiti in classe o le interrogazioni della prof di matematica, materia che odiava più di ogni cosa.
E poi c’è il più temibile di tutti, quella fossetta sul mento che le viene quando è arrabbiata e corruccia le labbra, serrandole in una morsa ostinata, mentre gli occhi color smeraldo mandano lampi. Ho visto parecchie volte quell’espressione sul suo viso, ma solo una è quella che non dimenticherò mai. 23 dicembre 2006, quando per la prima e unica volta la sua rabbia era rivolta verso di me.

La clinica dov’è ricoverata Caterina è tra le più lussuose della regione.
Quando sono venuto a trovarla per la prima volta, un paio di mesi fa, ho pensato che se non fosse perché è un posto dove si va a morire, sarebbe proprio un bel posto per vivere. Ha pavimenti immacolati, di marmo, e pareti color pastello; i mobili sono sobri ma eleganti, e ogni camera è dotata di un televisore lcd da 32 pollici.
Di solito ci guardiamo un film, ma il mercoledì è indiscutibilmente la giornata degli scacchi. Il bianco e il nero. Oggi le mie pedine nere stanno vincendo.
Mentre avanzano, inghiottendo tutto il bianco che incontrano sul loro cammino, sento la nausea salirmi dentro come un’inarrestabile marea. So che non c’è partita, so che sta per finire, che quando anche l’ultima pedina bianca verrà inghiottita dal fiume nero che sta travolgendo la scacchiera, il mio mondo sarà finito.
Perché vedete, io Caterina la amo.

16 settembre 1999, primo giorno di scuola.
Mi ero iscritto al liceo classico su pressione dei miei, ma di studiare proprio non ne avevo voglia e mi intimidiva quella massa di ragazzetti saccenti che facevano ressa sul portone per entrare prima degli altri. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua, come sempre.
“Hey, in che classe stai?” Udii una vocetta acuta alle mie spalle.
Mi girai e la vidi per la prima volta. Una ragazzetta bassina, che dimostrava meno dei quattordici anni che aveva, con occhi grandi e una massa di capelli biondi arruffati. Era come se emanasse un’aurea di dilagante simpatia, perché improvvisamente mi sentivo meno a disagio, perfino predisposto a scambiare qualche chiacchiera.
Solo che come al solito non sapevo che dire. Non volevo essere banale, lei mi sembrava una tipa brillante, sicura di sé; magari era abituata a tipi tosti, con la parlantina sciolta.
“Quarta C” Balbettai dopo un po’ “Tu invece?”
A quel punto la sua espressione cortese si allargò in un sorriso raggiante, incredibilmente contagioso, che le illuminò il viso e fece splendere gli occhi verdi, l’unica cosa davvero straordinaria in quel visetto ordinario.
“Allora vieni con me. So dov’è l’aula”
Mi prese per una mano e mi trascinò con sé senza darmi il tempo di ribattere, con una sicurezza travolgente che non ammetteva repliche né ostacoli. Da quel giorno ho vissuto trascinato da lei.

Ho vinto la partita.
Caterina mi guarda con una smorfia di finto astio, poi sorride, mi fa una linguaccia e si mette a riporre ogni cosa. Io la osservo sgombrare il pavimento e infilare con cura le pedine bianche e nere in un sacchetto di velluto marrone, e penso che sto seriamente iniziando a odiare gli scacchi. Il bianco e il nero. Il bianco sta per andarsene per sempre, e io ho ancora una decisione da prendere prima che sia troppo tardi. Sono immerso nelle mie riflessioni e non mi accorgo che Caterina è tornata a sedersi a terra di fronte a me, le gambe incrociate, e mi sta fissando.
Lei non riesce a leggere il mio viso con la stessa facilità con cui io leggo il suo.
Questa cosa per anni mi ha fatto impazzire…non sono mai stato bravo con le parole, quelle le lasciavo a lei, e proprio per questo avrei voluto che almeno i miei occhi riuscissero a parlare per me. E invece niente. Lei non ha mai capito, e io non le ho mai parlato. Oggi in tutto ciò mi sembra di vedere il disegno misericordioso di Dio: quel Dio che ho tanto odiato e maledetto il giorno che Caterina ha scoperto di essere malata, ha deciso di privarla anche della capacità di comprendere fino in fondo i sentimenti altrui. Non è che sia stupida, tutt’altro.
È intelligente è acuta, afferra al volo il nocciolo di ogni questione, ha letto centinaia di libri ed in grado di conversare su tutto. Ma è anche semplice ed essenziale come gli elementi della natura, come un fiume che va per il suo corso trascinando con sé ogni cosa, senza preoccuparsi di ciò che ha intorno, senza fermarsi a guardare.
Lei è così: prende e va. Lei non potrebbe mai capire i miei inutili tormenti, i pensieri angosciosi, i dubbi, l’ansia folle e le mille paure che mi bloccano.
E oggi mi rendo conto che è un bene.

23 dicembre 2006. Come dimenticare quella giornata? Eravamo all’università e ci vedevamo ancora spessissimo, nonostante lei frequentasse molta più gente di me, soprattutto ragazzi. Ciò era causa di frequenti litigate i cui motivi non erano mai chiari, perlomeno a lei. Io – per quanto restio ad accettarlo – sapevo che l’unico problema era la mia maledetta gelosia. La attaccavo per i motivi più banali – un appuntamento dimenticato, degli appunti restituiti in ritardo, una festa di cui non mi aveva informato – e furono decine le volte in cui uscì dalla mia camera sbattendo la porta e io pensai che non l’avrei più rivista. E invece ogni volta tornava, rivolgendomi uno sguardo che mi spezzava il cuore, e mi chiedeva di far pace. Come se fosse lei ad aver sbagliato, quando io la tormentavo perché non mi amava. La facevo soffrire e mi odiavo per questo, ma non riuscivo a smettere.

Quella sera i collegi erano semivuoti.
La maggior parte degli studenti era tornata a casa per le vacanze natalizie ed era rimasto solo chi, come noi, non aveva trovato posti disponibili sui treni in partenza quel giorno. Passammo la serata in camera sua, a guardare un film horror che nemmeno ricordo, e ci scolammo più di qualche bicchiere di vino.
A mezzanotte ce ne stavamo stravaccati sul suo letto a una piazza, inevitabilmente vicini, parecchio alticci e propensi a ridere per ogni cavolata.
Non ricordo chi dei due cominciò, ma a un certo punto iniziarono a volare cuscinate, e lottammo a lungo finché alla fine, stremati, mettemmo i due cuscini uno contro l’altro e iniziammo a gareggiare a chi spingeva più forte.
Ovviamente ebbi la meglio io, e Caterina si ritrovò stesa sul letto, vinta, con me sopra che le tenevo bloccate le braccia. Rideva ancora, ma era una risata nervosa, lievemente imbarazzata. Le nostra labbra erano a pochi centimetri di distanza, le sue erano leggermente dischiuse e potevo respirare il sentore agrodolce del vino che avevamo bevuto per tutta la serata, mischiato al profumo dolciastro e fruttato della big-bubble. E  poi l’odore della sua pelle, così vicino e così forte come non l’avevo mai sentito, quegli occhi immensi che mi avvolgevano nella loro luce verde, magica…il battere accelerato del suo cuore, quasi all’unisono col mio.
Non so cosa mi diede il coraggio per farlo, ma la baciai.
Per un istante lei ricambiò il mio bacio. Per un istante, che mi sembrò infinito, assaggiai tutto il dolce che la vita può offrire. Per un istante folle ebbi l’assurda certezza che anche lei mi amasse. Ma svanì tutto.
Si staccò da me con violenza, balzando in piedi, e mi guardò con rabbia, le lacrime che scendevano involontariamente sulle guance arrossate.
“Non farlo mai più” Sibilò, così piano che più che udirla lessi i movimenti rapidi delle sue labbra “Mi ha sentita? Non provarci…mai più!”

Sobbalzo quando mi rivolge la parola.
Non so che risponderle. Immerso nei ricordi, non ho ascoltato nulla di ciò che ha detto. Continua a fissarmi con un’espressione strana, assorta, che non ricordo di averle mai visto, e per una volta sono io a non riuscire a leggere i suoi occhi.
Caterina è una delle persone più logorroiche che abbia mai conosciuto e ora quel silenzio tra noi ha del soprannaturale, sembra quasi mistico in un luogo che per sua natura è votato al silenzio e alla quiete…prima della fine.
So che se non glielo dico non me lo perdonerò mai.
“Ti amo” Dico semplicemente.
Mi accorgo troppo tardi di essere sull’orlo delle lacrime. Non riesco a fermarle, e per un po’ non riesco nemmeno a guardarla in faccia.
Quando rialzo la testa, mi accorgo che anche lei sta piangendo.

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